Psycho (1960): recensione del film Alfred Hitchcock
Psycho, il film capolavoro di Alfred Hitchcock, ci dice - oggi più di ieri - che a terrorizzarci dev'essere quel che più ci consola e ci allieta.
Phoenix, Arizona, 1959. Un uomo si vanta con la segretaria del suo agente immobiliare di avere una bella figlia diciottenne che l’indomani si sarebbe sposata e che «non ha conosciuto neanche un giorno d’infelicità in vita sua». Come si tiene lontana l’infelicità? Con i quattrini, ribadisce tronfio. La segretaria si chiama Marion Crane ed è tormentata da una terribile emicrania. Chiede di poter tornare a casa ma, prima di congedarla, l’agente immobiliare e il cliente le affidano 40.000 dollari (la somma necessaria a comprare una casa per la sposina) in 400 biglietti da 100 perché lei li depositi in banca. Marion Crane accetta l’incarico, ma, anziché andare in banca, parte per un viaggio on the road verso la sua personale «isola del sogno», lontana, così crede, dalle frustrazioni di un amore clandestino, da un lavoro che le fa venire mal di testa e da una vita che non va da nessuna parte.
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Lei, la protagonista femminile della prima parte di Psycho, è alta, longilinea, biondissima e altera come tutte le eroine dei film di Alfred Hitchcock, così regolari nei tratti del viso e nella perfezione del corpo da sembrare disegnate da un architetto, teorizzate da un filosofo, dipinte da un pittore metafisico: il loro aspetto, che evoca una sessualità angelicata e perversa, riposta nella freddezza di un portamento che insieme seduce e respinge, è un simbolo iconografico della distanza insanabile tra uomini e donne, dell’attrazione, mista a paura, che gli uni hanno per le altre. E anche in Psycho questa distanza e questa paura sono i due cardini della costruzione drammaturgica, impersonati da Sam, l’amante bellissimo e sfuggente di Marion, che ha problemi di debiti e una moglie di cui non riesce a liberarsi, e soprattutto da Norman, il proprietario e gestore del motel che accoglie la fuggitiva costretta a fermarsi per la pioggia battente.
Con quest’ultimo, all’apparenza gentile, timido, un bravo ragazzo dalla faccia pulita, solo tremendamente inibito da un’ingombrante presenza materna, la donna ha una conversazione che colpisce subito corde profonde. “Ognuno è stretto nella propria trappola”, le dice il giovane, che per hobby impaglia uccelli, ma definirlo hobby è riduttivo perché “un hobby serve a far passare il tempo, no a riempirlo”. Il disagio esistenziale che impala Norman a un tempo vuoto e il suo rapporto vischioso con la madre (“la migliore amica di un ragazzo”) scuotono Marion e la spingono a desiderare di tornare a casa, restituire i soldi rubati, riprendere la sua vita insoddisfacente, ma comunque a suo modo piena. Non le sarà possibile.
Psycho ha sessant’anni, ma non ha perso il suo fascino (e la sua attualità)
A guardare Psycho oggi, a quasi sessant’anni dalla sua distribuzione, la scena culto dell’accoltellamento di Marion nella doccia non terrorizza più e anche i difetti che i critici attribuivano al film al momento della sua uscita – la scolasticità, gli automatismi, l’assenza di una vera caratterizzazione psicologica dei personaggi – risultano tutti visibili: a Hitchcock non interessava raccontare una storia quanto attivare un ingranaggio implacabile, e, in questo ingranaggio, l’immagine ‘assoluta’, perfetta, astratta resta una rappresentazione a se stante, no una parte del tutto, ma un tutto in sé compiuto e autosufficiente. Non aveva alcun interesse per l’organicità come rimando di elementi, Hitchcock, ed infatti a lui importava soprattutto delle immagini, dei simboli, della donna-angelo che nasconde un demonio e dell’uomo-demonio che nasconde un angelo, un’ingenuità, un trauma infantile, di matrice femminile, mai risolto.
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Se Psycho mostra, così, inevitabilmente, nella sensibilità per il genere (potremmo definirlo thriller, ma è naturalmente molto di più) i segni della sua età, in più cose, in più urgenze, non è per niente invecchiato o cambiato: nella capacità di disturbarci a un livello molto più profondo del sobbalzo da reazione a un evento orrorifico; nel denunciare l’illusione – allora era soprattutto americana, ora è globale – di poter colmare vuoti e tristezza con i soldi, con le pillole, con le compulsioni; nell’affrontare questioni enormi come l’abuso femminile, il complesso psichico e il matricidio con un tocco che potrebbe sembrare lieve, ma lieve non è per niente, ed è anzi inesorabile come una legge di natura, come un’evidenza matematica. Psycho ci dice, oggi ancora più di ieri, che a terrorizzarci dev’essere quel che più ci consola e ci allieta, sia esso il calore tirannico della madre o un sogno apparentemente innocente di fuga.
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