Solo Dio perdona: recensione del film di Nicholas Winding Refn
La recensione della penultima pellicola per il grande schermo del pluridecorato cineasta danese, da molti addetti ai lavori considerata l’anello debole di una straordinaria filmografia. Scopriamo il perché...
L’attesa si sa può riservare piacevoli sorprese o cocenti delusioni, specie quando giunge finalmente il momento di scoprire se le aspettative e le speranze riversate su questa o quell’altra pellicola erano fondate oppure no. Per cui se sei un regista reduce da un successo planetario, apprezzato tanto dal pubblico quanto dagli addetti ai lavori, capace di incassare la bellezza di 80 milioni di dollari a fronte di un investimento di 15, allora le pretese nei confronti dell’opera successiva e in quelle che verranno sono per forza di cose destinate a crescere in maniera esponenziale. Se poi a questo andiamo ad aggiungere che quella stessa pellicola è valsa a chi l’ha firmata un prestigioso riconoscimento nel palmares di una delle kermesse più importanti del circuito festivaliero internazionale, allora il pericolo di essere schiacciati dal peso delle aspettative è inevitabile. Insomma, quel cineasta dovrà di fatto fare i conti con un’affilata spada di Damocle che penderà minacciosa sul suo lavoro dietro la macchina da presa per il resto della carriera. A molti è toccato questo destino sin dalla notte dei tempi della Settima Arte, ma fa parte del gioco e bisogna saperlo accettare perché significa che quel qualcuno conta qualcosa nell’affollato panorama cinematografico mondiale. Nicolas Winding Refn è uno di questi e uno dei film in questione è Solo Dio perdona.
Solo Dio perdona: un film ben al di sotto del potenziale intrinseco e delle capacità autoriali ampiamente riconosciute a Refn
Il regista danese ha firmato uno dei film più emozionanti e riusciti del 2011, che ha consacrato definitivamente lui e Ryan Gosling, che ne era l’indiscusso e straordinario interprete principale, nell’Olimpo di celluloide. Per chi non lo avesse ancora intuito stiamo parlando di Drive, diventato di fatto una delle pietre miliari del cosiddetto filone del revenge movie, che è valsa all’attore americano una nomination all’Oscar e al regista di Copenaghen la Palma per la regia in quel di Cannes, dove a due anni di distanza è tornato per presentare in concorso la sua ultima fatica dal titolo Solo Dio perdona.
Purtroppo la Croisette l’ha accolta con una bordata di fischi, che a nostro modesto avviso riteniamo un a reazione eccessiva e troppo severa rispetto ai singoli valori espressi dall’opera, nonostante risulti nel complesso ben al di sotto del potenziale intrinseco e delle capacità autoriali ampiamente riconosciute a Refn, uno che in passato aveva calamitato a sé l’attenzione con la potentissima trilogia di Pusher e con il formidabile Bronson. Resta il fatto che ad oggi, quella in questione, rappresenta per la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori l’anello debole della sua filmografia, oltre che un passo falso dal quale si è ripreso solo parzialmente grazie a The Neon Demon e alla serie Too Old to Die Young.
Refn chiude un ideale trittico che comprende Drive e Valhalla Rising
Con Solo Dio perdona, il cineasta chiude un ideale trittico che oltre al film del 2013 può contare su Drive e Valhalla Rising. Al suo interno è possibile, infatti, rintracciare un fil rouge che consegna allo spettatore diverse sfumature di un modello di personaggio che riporta la mente al cavaliere errante dell’immaginario letterario del passato, perennemente alla ricerca di qualcosa o di qualcuno, di una meta da raggiungere o di una vendetta da consumare. Nelle intenzioni del regista danese quella figura innominabile è silenziosa e letale, capace di slanci di affetto nei confronti dei propri cari, contrapposti a improvvise folate di violenza incontrollata verso coloro che lo minacciano o mettono a rischio la vita delle persone per le quali nutre dei sentimenti. Questi si muovono in luoghi e tempi differenti, così da catapultare il fruitore di turno al seguito dello schiavo One-Eye di Valhalla Rising, del pilota di Drive sino al Chang di Solo Dio perdona, un poliziotto in pensione che opera basandosi su un’idea di giustizia molto personale.
I tre rappresentano a tutti gli effetti il rovescio della stessa medaglia, quella di un “guerriero” che non ha alcun problema a sporcarsi le mani di sangue quando è venuto il momento di farlo. L’unica eccezione è che Chang non è come gli altri due il protagonista della storia, bensì l’antagonista che ostacola il percorso di vendetta del personaggio principale, ossia Julian, il membro di una potente famiglia criminale che gestisce un club di pugilato in Thailandia come copertura per il traffico di droga, al quale è stato assassinato il fratello maggiore, a sua volta colpevole di avere ucciso brutalmente una prostituta in quel di Bangkok.
Un racconto povero e strutturalmente inconsistente, che concede solo rari colpi di coda
A vestire i panni di Julian troviamo ancora una volta Ryan Gosling, che dopo Drive torna al fianco di Refn per consacrare un sodalizio artistico che sembra destinato a durare nel tempo. L’attore statunitense da parte sua non può fare altro che timbrare il cartellino, regalando alla platea un’altra interpretazione da ricordare, nonostante il personaggio che gli è stato affidato sia lo copia sbiadita di quello apparso nel film precedente. Ed è proprio questo il grande male che affligge l’intera operazione, che tradotto si manifesta in una debolezza drammaturgica piuttosto evidente, frutto di un’architettura narrativa che scivola a fatica, arrancando in più di un’occasione, verso un epilogo che lascia l’amaro in bocca per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Intorno e dentro il plot barcollano figure appena abbozzate, delineate quanto basta per animare un racconto povero e strutturalmente inconsistente, che concede solo rari colpi di coda legati alle situazioni piuttosto che alla storia nel suo complesso. Refn cuce i fili, ma non riesce a tessere una tela in grado di reggere il peso di una storia di vendetta, redenzione e perdono, al contrario di quanto erano riusciti a fare prima di lui il Park Chan-wook della celebre trilogia o il Johnnie To di Vendicami.
Solo Dio perdona: una grandissima Kristin Scott Thomas in versione biondo platino è la vera sorpresa del film
L’aspirale di sangue passa così in secondo piano, poiché prevedibile e poco appassionate rispetto a quello che aveva coinvolto due anni fa Driver, lasciando così il testimone a quello che da metà film diventa l’unico vero motivo di interesse che traina la visione, vale a dire le dinamiche familiari che si vanno delineando sullo schermo a partire dall’entrata in scena di Crystal, la madre dei due fratelli giunta a Bangkok per recuperare il corpo del primogenito e per organizzare la spietata vendetta contro coloro che si sono macchiati del sangue del suo figlio prediletto. Il rapporto di amore e odio tra Julian e sua madre, le gelosie e la dipendenza morbosa tra i due, finiscono così per prendere il sopravvento sull’intero plot. È un’immensa Kristin Scott Thomas biondo platino e senza peli sulla lingua a interpretarla, riportando alla mente, tutte le volte che fa capolino sullo schermo, la nonna Smurf Cody (una straordinaria Jacki Weaver) di Animal Kingdom, l’inedita spietata capoclan con intenso senso materno del folgorante esordio al cinema di David Michôd. Tutte le volte che il personaggio di Crystal appare, infatti, il film si accende e regala alla platea i passaggi più riusciti: vedi ad esempio la cena di presentazione della fidanzata di Julian.
Tensione e suspense si alzano solo di rado, animando un tracciato piatto avaro di emozioni
Refn non riesce tuttavia a mettere insieme le tessere del mosaico, che singolarmente, con un lavoro di scrittura più accurato, avrebbero molto probabilmente funzionato. È lo script a non fornire le basi solide per costruire un plot armonioso e coinvolgente, drammaturgicamente parlando in grado di arrivare più in alto. Tensione e suspense si alzano solo di rado, animando un tracciato piatto avaro di emozioni e di clamorosi colpi di scena. A farla da padrona sono i silenzi assordanti e i continui giochi di sguardi, che diventano la partitura audiovisiva che il regista spezza con incursioni musicali e dialoghi ridotti all’osso. In tal senso, da non perdere il montaggio in parallelo che mostra il tour sessuale dei due fratelli che porteranno il primo al piacere e il secondo alla morte.
Il tutto si stabilizza però sulla soglia della sufficienza, rimanendo a galla su di essa solo e soltanto grazie al lavoro dietro e davanti alla macchina da presa del cast e del regista stesso, ancora una volta bravissimo a dare forma a un mondo malfamato dove la vita ha un valore flebile. Per farlo dipinge con i toni acidi spalmati su una tavolozza dove a dominare sono il giallo fosforescente dei neon e il rosso porpora del sangue, una Bangkok notturna dal cuore nero e pulsante, cloaca e giungla che fagocita tutto e tutti; ventre sporco e malato che ospita al suo interno prostitute e papponi, poliziotti corrotti, killer e spacciatori. Stilisticamente il regista non delude, tracciando linee chirurgiche con sinuosi movimenti di steady che alterna a quadri dalla geometria impeccabile. Peccato che tale “poesia” venga messa al servizio di una scrittura tanto fragile da rendere il tutto futile estetica.