La vita che volevi è la nuova serie Netflix che lotta contro gli stereotipi: l’incontro con Ivan Cotroneo e il cast

La gestazione, lo sviluppo e i motivi che hanno portato alla realizzazione della nuova serie Netflix italiana.

L’importanza della rappresentazione, la necessità del racconto, l’educazione dello sguardo; lunedì 3 giugno, in Sala dei 146, presso l’università Iulm di Milano, si è tenuta la presentazione della nuova serie Netflix – prodotta da Banijay Studios ItalyLa vita che volevi. L’incontro rivolto ai ragazzi dell’ateneo, moderato dei professori Daniela Cardini e Fabio Vittorino, ha visto la partecipazione dell’ideatore, sceneggiatore e regista, Ivan Cotroneo (Un bacio, Quattordici giorni), della protagonista Vittoria Schisano, dell’attrice Bellarch e del Content Manager Series Netflix, Filippo Rizzello.

Dalla gestazione dell’opera alle tematiche da essa affrontate, gli ospiti hanno parlato delle scelte che hanno portato alla sua realizzazione e, accompagnati da alcuni brevi estratti della serie, dell’importanza e delle ambizioni di un progetto che tenta di farsi promotore di un racconto altro: la rappresentazione di una realtà che in Italia, fino ad ora e in questa maniera, non era mai stata mostrata.

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La trama de La vita che volevi

La vita che volevi cinematographe.it

Storica dell’arte e dirigente di una di un’agenzia turistica assieme all’amica Eva (Bellarch), Gloria Priori (Vittoria Schisano) vive in Salento la “nuova vita” datale dalla transizione avvenuta anni prima, circondata dagli affetti e appagata dall’ascendente carriera. L’apparente serenità della donna viene però sconvolta dall’arrivo inaspettato di Marina (Pina Turco), sua carissima amica – oltre che amante – scomparsa da circa 15 anni, proprio qualche giorno prima dell’operazione di Gloria. Oltre a portare in grembo il figlio del violento Pietro (Alessio Lapice), Marina si presenta con, al seguito, Arianna, avuta con il precedente compagno, Sergio (Giuseppe Zeno), e Andrea (Nicola Bello), che nel corso del primo episodio si scopre essere figlio della stessa protagonista. La caotica situazione di Marina irrompe improvvisamente nella vita della vecchia compagna, sconvolgendone l’equilibrio e costringendola ad affrontare un passato al quale era riuscita a sfuggire e che non sente più suo. Lacerata dal dubbio se rinnegare quel che è stato o se abbracciare quest’inattesa nuova veste genitoriale, ella viene messa alla prova dal manifestarsi di responsabilità che non credeva le appartenessero.

La necessità del coraggio

Non è stato coraggio, è stata necessità” dice Gloria in uno degli stralci mostrati dagli organizzatori dell’incontro, ed ecco che subito emerge l’aspetto focale di una narrazione che entra all’interno del palinsesto Netflix Italia come una ventata d’aria fresca. Di necessità parla fin da subito il regista Ivan Cotroneo che, assieme a Monica Rametta, con la quale ha scritto la sceneggiatura della serie, ha voluto raccontare “figure che solitamente non sono al centro dell’attenzione“, perché “raccontare la realtà senza questa parte di realtà, è una forma di censura“.

Ma è proprio dall’assenza di progetti di questo tipo, ad esso precedenti, che si passa per definire il coraggio di chi – dagli autori agli interpreti, passando per i distributori – ha affrontato il tabù con familiarità, dando la transizione quasi già per assodata, e ha fortemente insistito sull’aspetto educativo della narrazione. Il valore pedagogico dell’opera e quello di Netflix sono i motori trainanti di un racconto che si rivolge all’Italia attenzionando principalmente i giovani sguardi, quelli ancora da formare, ancora da educare, quelli verso cui Cotroneo, da sempre, dimostra un particolare interesse, in quanto ritiene che “il mondo degli adolescenti sia sottorappresentato in molte cose“.

La complessità contro lo stereotipo

Ivan Cotroneo cinematographe.it

Abbiamo bisogno della complessità, perché la complessità è precisione. La complessità è il contrario dello stereotipo“. Queste invece le parole di Bellarch, intervenuta a proposito della complessa rappresentazione dell’identità come prodotto di una pluralità, piuttosto che di una visione monodirezionale. La donna AMAB (Assigned Male At Birth) non è più stereotipica ma mostrata in tutta la sua naturalezza, in tutta la sua umanità, meritevole di essere considerata al pari di qualsiasi altro essere umano. La femminilità è qui costruita in maniera tutt’altro che convenzionale poiché la necessità è quella di rappresentare la realtà in quanto tale: l’esistere di una donna non si determina in base all’uomo con il quale ha una relazione o in base alla suo essere o non essere madre.

La complessità affiora perché la complessità è vera, è vita, e ben lo sa Vittoria Schisano che sente di “aver regalato verità al personaggio“, così come sente che lo stesso personaggio abbia dato lei “qualcosa che mancava“, in un racconto che passa anche inevitabilmente da un’autobiografismo, da un bisogno degli stessi autori e degli interpreti di comunicare una possibilità, di trasmettere un realtà vera, di manifestare l’importanza di una narrazione che abbatta lo stereotipo e omaggi la complessità.

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